C’è un termine francese – difficile da tradurre in italiano – che ben si addice ai dialoghi che innervano e sostanziano buona parte del film Una relazione passeggera. Il termine è marivaudage, deriva dal cognome del commediografo e romanziere 700esco Pierre de Marivaux e indica una conversazione galante e raffinata, arguta e preziosa, in cui gli interlocutori mascherano o camuffano i loro veri sentimenti e si abbandonano a un sottile gioco psicologico di bugie e inganni per scoprire se sono o meno corrisposti. Anche i protagonisti di Una relazione passeggera di Emmanuel Mouret fanno ricorso a questo gioco: Charlotte e Simon si incontrano, vanno a letto insieme, si vedono periodicamente e non fanno che parlare della loro relazione. Lei è single, ha tre figli e un desiderio incontenibile di leggerezza, lui è sposato, di figli ne ha due, ed è divorato dal senso di colpa per aver tradito sua moglie. Non solo: Simon è goffo, impacciato, inadeguato, incapace. “Per venire a letto con un tipo come me – dice a un certo punto – bisogna essere caritatevoli…”. Lei non lo è. Anzi: è decisa, leggiadra, spontanea. Vuole una relazione libera. “Vietato affezionarsi”, dice a un certo punto. Ma è proprio così, per entrambi? O sono solo maschere, giochi di ruolo? O recite a soggetto nell’eterna commedia dei sentimenti?
Emmanuel Mouret fa il vuoto visivo intorno a loro: la moglie di lui – al centro di tanti discorsi – non si vede mai, così come non si vedono i figli di lui e di lei. Invisibile è pure il marito di Louise, la giovane professoressa di lettere che i due amanti abbordano su un sito di incontri, alla ricerca di un’avventura a tre. Ci sono solo lui, lei e l’altra. E i luoghi: la camera da letto, la libreria, i musei, i parchi, i boschi, i ristoranti in cui va in scena la loro relazione clandestina. Perché di questo è fatto un amore: corpi, luoghi e parole. Tanto che quando i corpi cessano di parlare e le parole risuonano vuote, Mouret inquadra i luoghi che prima avevamo visto abitati e ce li mostra tristemente vuoti. Se l’amore è teatro, il palcoscenico e la scenografia contano quanto gli attori: e la teatralità è continuamente sottolineata dalla regia, che nelle scene di interni inquadra quasi sempre gli amanti incorniciati nello stipite di una porta. La macchina da presa resta al di qua, loro sono al di là, spesso parzialmente fuoricampo, come nella scena in cui sono a letto ma la posizione della macchina rispetto allo stipite consente di vedere solo i loro piedi sotto le coperte. Una sola volta la macchina da presa li aspetta oltre uno stipite/soglia che loro oltrepassano: è quando durante una gita entrano in una chiesa in penombra.
Per il resto la regia di Mouret incalza i suoi personaggi, spesso con delicati piani sequenza, lasciandoci godere del loro gioco di detti e non detti, di strategie seduttive, di ricerche di conferme. Giochi di amanti che mentono a se stessi, che sanno di essere innamorati ma non osano riconoscerlo, che si ingannano e si denudano nelle infinite coreografie del sentimento. Un po’ Rohmer e un po’ Woody Allen, come hanno detto e scritto in tanti. Con un esprit de finesse di grande eleganza. Con le note di La javanaise di Serge Gainsbourg che accompagnano il tema del disimpegno sentimentale (“Nous nous aimons le temps d’une chanson”: ci amiamo solo per il tempo di una canzone…). E con un coup de theatre da manuale: dopo una lunga separazione, Charlotte e Simon si ritrovano, per caso o per destino, a fare la coda al cinema Escurial per vedere Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman: un capolavoro che – come è noto – mette in scena con ferocia il tumulto dei sentimenti e descrive il naufragio di una relazione. Paradossalmente, l’essersi ritrovati in sala a vedere quel film rappresenta il climax anche della loro relazione, ma non nella direzione del naufragio. Perché è vero che il finale – lo scoprirete – è sospeso e leggiadramente aperto, ma con una certezza indiscutibile: andare al cinema, anche in questo caso, salva la vita.