“Sono un feticista delle parole!”. Si definisce così il protagonista del nuovo film che il regista francese Arnaud Desplechin ha tratto dal romanzo Inganno (Deception) di Philip Roth. Ma forse scrivere che Tromperie è tratto da Inganno non rende a sufficienza l’idea. Perché Inganno è un testo quasi impossibile da “tradurre” sullo schermo: 166 pagine di soli dialoghi, dove all’inizio non sai bene chi parla, né con chi, né perché, né quando, né come. Desplechin ne è consapevole. E lo è al punto di fare della parola la vera protagonista. Solo un francese poteva accettare (e vincere) una sfida così: prendere uno scrittore ebreo americano (alter ego di Roth), trasferirlo a Londra e raccontarlo in un film diviso in 12 capitoletti, ognuno dei quali dedicato a un episodio (o a una stagione) del suo rapporto con le donne e con le parole. Per trasformare in parole il suo rapporto con le donne. Donne reali e forse anche donne solo immaginate. Donne del presente e donne del passato. Donne cha parlano e lui che le ascolta. Dialoghi. Allusioni. Confessioni. Fantasie.
L’asse centrale del racconto si annoda attorno al rapporto fra lo scrittore (interpretato da Denis Podalydès) e la sua amante inglese (una straordinaria Léa Seydoux): poco più che trentenne, da poco madre, ma già annoiata e insoddisfatta del suo matrimonio, si incontra di pomeriggio nello studio dello scrittore e teatralizza con lui il loro reciproco desiderio.
La macchina da presa di Desplechin si muove sensuale attorno ai corpi, scivola sui volti, accarezza la pelle, inchioda i sorrisi. L’ambientazione passa dal realismo più minuzioso all’astrattismo più marcato. Lo spazio si svuota. Le luci si abbassano, i mascherini da cinema muto isolano e ritagliano i volti e i corpi. E le parole ballano, colano, sfrigolano, confliggono.
Le donne dello scrittore affiorano nella memoria: la ragazza ceca fuggita dalla Cecoslovacchia negli anni Settanta, la malata terminale di cancro, la studentessa che ha subito l’elettroshock e vive sotto l’effetto di psicofarmaci, la moglie, l’amante. Con tutte si parla d’amore, di sesso, di fantasie erotiche, di tradimenti, di sensi di colpa. Ma poi è soprattutto il fantasma della morte che viene a galla: è la paura dell’uomo di invecchiare e di non saper affrontare l’appuntamento con la propria fine.
Prima di questo, tuttavia, Tromperie mette a fuoco, con rapidi tocchi eleganti, il rapporto fra l’amore e la continua interrogazione dello scrittore (che in uno dei capitoli immagina perfino di essere processato da un tribunale di donne per il modo stereotipato cui descriverebbe le donne nei suoi libri) sui motivi e sulle cause dell’amore.
Perché ci si innamora? Cosa ci attrae nell’altro o nell’altra? Perché sentiamo il bisogno di verbalizzare desideri e sentimenti? Perché trasformare eros in logos? Per arginare la paura dell’inconoscibile? Per razionalizzare l’irrazionale? Forse. Ma mentre la macchina da presa si muove di continuo e passa dai corpi agli oggetti, ai fogli, alla macchina da scrivere, al taccuino su cui il protagonista annota ciò che le sue donne gli hanno detto, questo film, fatto di schermaglie, dettagli, frammenti, abbracci e amplessi, finisce per interrogarsi soprattutto (attenzione in particolare al capitolo XI!) sul rapporto fra realtà e finzione. E per chiedersi (e chiederci…) se Roth e più in generale gli artisti e i narratori rubano alla vita per fare letteratura o se usano la letteratura per dare sapore e senso alla vita.