C’mon C’mon, la fotografia di Robbie Ryan

ARTICOLO DI Gianni Canova

Perché C’mon C’mon è sempre sospeso sulla soglia fra pubblico e privato, fra presente e passato (i flashback sugli ultimi giorni di vita dell’anziana madre morente), fra realtà e finzione (lo zio legge al nipotino Il mago di Oz e risponde alle domande del bimbo con le parole del libro), fra simulazione e autenticità (il tema dell’orfanità…), fra i livelli del suono, sempre troppo bassi o troppo alti

Un adulto e un bambino on the road nel paesaggio americano: quante volte l’abbiamo già visto al cinema, da Paper Moon di Peter Bogdanovich a Alice nelle città di Wim Wenders? C’mon C’mon di Mike Mills (Il succhiapollice, Beginners, Le donne della mia vita) riprende esattamente questo topos – caro soprattutto al cinema indipendente d’autore – e lo fa proprio anche in alcuni dettagli stilistici come la scelta del bianco e nero nella fotografia di Robbie Ryan (La favorita, Storia di un matrimonio). Ma non solo: tanto Tatum O’Neal in Paper Moon quanto la piccola Alice del film di Wenders hanno nove anni, esattamente come Woody Norman, il bambino protagonista di C’mon C’mon. La prima è orfana, la seconda viene affidata a uno sconosciuto dalla madre che vuole ricongiungersi con il padre. In C’mon C’mon il piccolo protagonista non è orfano ma gioca a recitare la parte dell’orfano quando la madre (da poco orfana di madre) lo affida allo zio interpretato da Joaquin Phoenix (ovviamente a sua volta orfano) per raggiungere il marito affetto da gravi disturbi psichici.
Corsi e ricorsi, echi che riaffiorano nella memoria del cinema: qui Joaquin Phoenix (alla sua prima prova dopo il ruolo epocale in Joker), giornalista radiofonico che gira gli States per un’inchiesta su come i bambini immaginano il futuro, porta con sé il nipotino, da Detroit a Los Angeles, da New York a New Orleans. E mentre registra le voci dei bambini che parlano dei loro sogni e delle loro paure, costruisce un rapporto con questo nipote che ha più cose da insegnargli che cose da imparare da lui. Siamo al solito tema – un po’ didascalico, per la verità – dell’adulto poco cresciuto e del bambino fin troppo maturo.


Ma la forza del film non sta nella sceneggiatura (a volte un po’ fiacca e ripetitiva), quanto piuttosto nella fotografia:
il bianco e nero di Robbie Ryan alterna riprese in esterno sulle città americane inquadrate di volta in volta dall’alto (ma senza l’intervento di droni) e dal basso, costruendo una sorta di sinfonia urbana che potrebbe piacere a Wim Wenders: quelle riprese notturne sulle highways piene di auto con i fari accesi che procedono lentamente non si sa verso dove, restano a lungo negli occhi e nel cuore, a sintetizzare forse l’immagine di una società che si muove incessantemente (lo suggerisce anche il titolo, “C’mon, c’mon”, dai, dai!) senza avere una meta chiara né nello spazio né nel tempo (l’indistinta idea di futuro che emerge dalle interviste ai bambini). Nelle scene in interno invece prevalgono riprese che inquadrano i personaggi incorniciati dentro lo stipite di una porta: la macchina da presa lentamente si allontana o si avvicina, a volte oltrepassando la soglia, altre volte restando al di qua, quasi a segnare da un lato il pudore con cui Mike Mills approccia i suoi personaggi, dall’altro lato a indicare che il tema della soglia è davvero centrale nell’orchestrazione del film.

Perché C’mon C’mon è sempre sospeso sulla soglia fra pubblico e privato, fra presente e passato (i flashback sugli ultimi giorni di vita dell’anziana madre morente), fra realtà e finzione (lo zio legge al nipotino Il mago di Oz e risponde alle domande del bimbo con le parole del libro), fra simulazione e autenticità (il tema dell’orfanità…), fra i livelli del suono, sempre troppo bassi o troppo alti (e il massimo di superamento della soglia è – non a caso – quando nella colonna sonora risuonano altissime le note del Dies Irae dal Requiem di Mozart). E poi c’è lui, Joaquin Phoenix: leggermente ingrassato, incanutito, tormentato, fa il padre putativo con adesione convinta, ma in un ruolo troppo ripulito da conflitti e frizioni per consentirgli di esprimere quella tensione, quegli attriti e quei contrasti interiori che da sempre gli offrono l’opportunità di dare il meglio di sé nel suo modo di affrontare il mestiere di attore.