America Latina, la regia di Fabio e Damiano D’Innocenzo

ARTICOLO DI Gianni Canova

Se Favolacce era a suo modo un film corale e metteva in scena il naufragio della piccola borghesia italiana, quella che si è guadagnata la villetta unifamiliare con giardinetto e barbecue, ma che è divorata dentro da un lacerante male di vivere, America latina al contrario è un film sul naufragio di un individuo (e, forse, anche sul naufragio di noi spettatori…)

Ci sono registi che non si fidano di noi spettatori. Che ci trattano come bambini. Che ci suggeriscono in continuazione non solo dove e cosa guardare ma anche cosa pensare. Che ci spiegano ogni minimo dettaglio dei loro film nel timore che da soli non siamo in grado di capire cosa volevano dire. Ce ne sono altri, invece, che ci trattano da adulti. Non ci dicono cosa dobbiamo guardare o pensare. Ci pongono davanti a segni, indizi, tracce. A volte anche a rebus e a enigmi. Ci mettono davanti a un mistero e lasciano che siamo noi a dare un senso a quello che vediamo. I gemelli D’Innocenzo appartengono a questa seconda categoria. I loro film ci interrogano, ci spiazzano, ci sfuggono, ci sfidano. Ci invitano a essere spettatori adulti. E a sperimentare il piacere supremo di produrre senso, e di provare a dare un senso al film e al mondo che in quel film si esprime e si riconosce.

Che cosa abbiamo visto?, è inevitabile chiedersi alla fine di America latina. La messinscena di un’allucinazione? La cronaca di un delitto annunciato? La fenomenologia di una follia? E ciò che abbiamo visto (o abbiamo creduto di vedere…), è davvero accaduto o il protagonista l’ha soltanto sognato?
La reticenza, che era il registro espressivo dichiarato di Favolacce, il precedente film dei fratelli D’Innocenzo, si impone anche in America Latina, e impregna di sé lo spazio mentale e metafisico in cui il film è sospeso, e i ripetuti feroci primissimi piani del volto del protagonista, sezionato come su un tavolo anatomico da una macchina da presa simile a un bisturi. Ma se Favolacce era a suo modo un film corale e metteva in scena il naufragio della piccola borghesia italiana, quella che si è guadagnata la villetta unifamiliare con giardinetto e barbecue, ma che è divorata dentro da un lacerante male di vivere, America latina al contrario è un film sul naufragio di un individuo (e, forse, anche sul naufragio di noi spettatori…).

Il protagonista è in apparenza un uomo “normale”: professione solida (dentista), bella moglie (“Sei un miracolo!”, le dice), due figlie deliziose, e una villetta con piscina. Però la villetta è costruita secondo una geometria irregolare. Però la famiglia forse non è così perfetta come sembrava. Però il padre burbero e livoroso accusa il figlio dentista di ogni nefandezza. E lui, spesso, piange. Perché?  E poi, soprattutto, cosa c’è di nascosto in cantina? E chi ce l’ha messo?
Come Psycho di Hitchcock, anche America Latina struttura lo spazio diegetico su tre livelli corrispondenti ai tre strati dell’inconscio: c’è il sotto (la cantina, luogo dell’Es), c’è il sopra (la casa, luogo del super-Io), c’è il livello della strada (luogo dell’Io e delle maschere sociali). Attorno, c’è il vuoto. C’è una provincia spopolata come neanche un quadro di De Chirico o di Hopper. C’è un bar senza clienti (la Villetta), c’è un amico solitario più e peggio del protagonista, c’è qualche paziente dello studio dentistico che sembra un fantasma. Basta. Non c’è mondo in America Latina, in questo angolo della provincia italiana che sogna l’America e si ritrova ad essere il nulla.

E mentre la colonna sonora dei Verdena popola quel nulla di clangori e stridori, e di tamburellamenti dall’effetto disturbante, mentre il montaggio di Walter Fasano alterna bruscamente le inquadrature di dettaglio sul volto del protagonista (sugli occhi, il naso, i pori, i brufoli…) con plongé distanti che raggelano e allontanano, mentre l’uso continuo di vetrate e di superfici riflettenti sdoppia e distorce ulteriormente le immagini, tu spettatore brancoli in uno spazio visivo che non riesci a trasformare in spazio mentale, perché ti ci perdi, e sbandi, e salti, e deragli, preso in una morsa di ossimori che a partire dal titolo ti stritolano dolcemente in un gioco  di opposti (buio/luce, sopra/sotto, dentro/fuori, normalità/follia, realtà/allucinazione) e sei obbligato (finalmente!!!) a renderti conto di cosa significa fare il lavoro del guardare. Finalmente! Finalmente un film che non ci liscia il pelo. Che non ci dà prima le istruzioni per l’uso. Che non ci illude che vedere e guardare siano gesti facili e innocui. Che ci obbliga a metterci in gioco. Che si sottrae a quella bulimia del visibile che domina il nostro mondo finto-social per invitarci a rimettere in gioco la nostra capacità di immaginare. Per spingerci ad entrare in quel buio/vuoto/nero che – come suggerisce la locandina del film – c’è sotto quel guscio d’uovo che è la nuca del protagonista.

In una delle sequenze più disturbanti e al tempo stesso “normali” del film, la famigliola perfetta (e mostruosa) è seduta davanti alla Tv. Non vediamo il monitor, perché è collocato dove siamo noi spettatori. Li vediamo guardare una tv che non vediamo (perché forse guardano noi?) e sentiamo la voce dello speaker che annuncia la strage di una famiglia in una località pontina. Mentre la voice off descrive i dettagli del raccapricciante delitto, la macchina da presa zooma sul volto del protagonista/dentista. Sulla sua espressione sconcertante.
Come già nel finale di Favolacce, anche in America Latina la Tv ha un ruolo centrale ma ulteriormente disorientante: quella notizia è la prefigurazione di qualcosa che anche il protagonista si accinge a fare? È il resoconto di qualcosa che ha già fatto e che nella sua follia si illude di non aver fatto? È un modello di crimine che sta decidendo di imitare? È un ricordo, un incubo, un pensiero, un’allucinazione? Non c’è risposta. Questa sequenza – come tutto il film – è indecidibile. E l’indecidibilità è il valore assoluto di un film come questo. Che in fondo rivolge a noi spettatori lo stesso invito che ci fa il capocomico di Elio De Capitani portando al Teatro dell’Elfo di Milano il Moby Dick alla prova di Orson Welles: “Dovete rimediare con i vostri pensieri alle nostre imperfezioni”.
Il pensiero e l’imperfezione: due valori molto fuori moda, oggi, che America Latina ci invita a riscoprire, senza nascondere la fatica che questo comporta.