La prima immagine è estiva e solare. Vista dal mare, la spiaggia di Forte dei Marmi sembra progettata da un designer. La voice over del protagonista, interpretato da Marco D’Amore, scandisce con intensità: “Ricordo bene quando arrivai qua per la prima volta. Mi dissero che Forte dei Marmi era un posto di mare raffinato. Infatti, era come se fossi entrato in una cartolina, dove tutto sembrava una perfetta messinscena”. Parte la musica, plongé sulla spiaggia. I pedalò color pastello, le tende bianche e azzurre degli stabilimenti balneari, la sabbia rastrellata. Geometrie alla Mondrian fra capanni verde/neri e passatoie bianche che si incrociano ortogonalmente. Ordine, eleganza, perfezione. Ma – appunto – è solo messinscena. Ancora la voice over: “Ma anche a Forte dei Marmi le giornate si accorciano e le notti si allungano”. Le immagini mostrano ora la spiaggia deserta, con mucchi di alghe abbandonate. Sullo sfondo, le Alpi Apuane imbiancate di neve. La voce fuoricampo: “Il buio divora la luce e la paura ci assale. Questa storia è una storia invernale”. Stacco. Buio. Una strada di notte. La fioca luce dei lampioni. L’asfalto umido che luccica. La camera a mano segue una ragazza che cammina barcollando. L’immagine ora è livida, spettrale. Sangue sul viso della ragazza. Suona al cancello di una villa. La vediamo riflessa nel videocitofono. Gli occhi sono pieni di paura, forse perfino di terrore. Security, tratto da un romanzo di Stephen Amidon (l’autore di Il capitale umano) e diretto da Peter Chelsom (Serendipity), mette subito le carte in tavola. E affida alla fotografia di Mauro Fiore, premio Oscar per Avatar, il compito di suggerire da subito, visivamente, la struttura dicotomica che lo attraversa e lo sostiene: giorno/notte, luce/buio, estate/inverno, sicurezza/paura. La luce nitida e i colori brillanti dell’incipit si spengono, le immagini diventano ombrose, tremanti, cupe, i colori si fanno smorti e buona parte della vicenda è osservata attraverso i monitor delle videocamere di sorveglianza, a cui è addetto il protagonista Roberto Santini (Marco D’Amore, appunto): lui vive di notte, incollato ai monitor, per proteggere le ville, le seconde e le terze case dei ricchi, da furti e sorprese. Ma dentro alcune di queste case accadano cose non proprio rassicuranti o raccomandabili. Le videocamere le registrano, lui le vede e noi le vediamo con lui. Sua moglie (Maya Sansa) è invece impegnata nella campagna elettorale per diventare sindaco della città, gioca tutte le sue carte sul bisogno di sicurezza dei cittadini, invoca la trasparenza e vive sempre di giorno, alla luce del sole. Anche la coppia protagonista, alle prese con il crepuscolo di un amore, vive e incarna insomma la dicotomia luministica e cromatica che innerva tutto il film. Ma tra il buio e la luce, tra il bianco e il nero, in Security gioca una parte rilevante anche il grigio: quello delle immagini dei monitor delle videocamere di sorveglianza e soprattutto quello che connota il personaggio di Fabrizio Bentivoglio, grigio nei capelli come negli abiti, ontologicamente e cromaticamente connesso alle immagini dei circuiti di sorveglianza: perché fra tutti i personaggi, lui è quello che più di ogni altro ha qualcosa da nascondere e dei segreti da occultare. Mentono tutti, in Security: i mariti alle mogli, le figlie ai padri, gli amanti agli amati, i genitori ai figli. La menzogna e la paura sono gli unici collanti di una comunità che si va disgregando: trasferendo l’azione dall’immaginaria cittadina di Stoneleigh, nel New England, dove è ambientato il romanzo di Amidon, alla capitale turistica della Versilia, la sceneggiatura riesce a dare una connotazione molto italiana a una storia popolata da fantasmi e da paure diffuse in tutto il mondo globalizzato (l’ossessione della sicurezza e della sorveglianza, la paura del diverso, il bisogno di un capro espiatorio su cui scaricare tutto il disagio che pervade il corpo sociale). Così, tra ombre notturne e spiagge deserte, con le fonti di luce che riescono a illuminare sempre e solo una porzione limitata del visibile, Mauro Fiore disegna un noir versiliese di indiscutibile originalità, che suona anche come monito ai pregiudizi con cui troppo spesso ci illudiamo di vedere chiaro anche là dove c’è solo notte e buio.