Malcolm & Marie – La fotografia di Marcell Rév

ARTICOLO DI Gianni Canova

Due fari bucano la notte. Un’auto in campo lunghissimo scende lungo la strada che porta a una villa isolata (la californiana Caterpillar House). Il bianco e nero della fotografia brilla e contrasta. Stacco. Siamo in interni. Le luci si accendono. Un uomo e una donna in abito da sera (lei in lungo argentato, lui in smoking e papillon) entrano nel corridoio. Lei, aria seccata e annoiata, si dirige subito in bagno e si siede sul wc. Lui comincia a parlare. La macchina da presa lo segue.

Il direttore della fotografia Marcell Rév (ungherese, storico collaboratore di Kornel Mundruczo, il regista di Pieces of a Woman, ma anche al fianco di Sam Levinson in Euphoria) gira in pellicola, 35 mm., e in un bianco e nero che evoca i classici della golden age hollywoodiana. Solo che quei capolavori erano interpretati solo da attori bianchi, a differenza di quanto accade con i protagonisti di Malcolm & Marie, Zendaya e John David Washington.  Lui è euforico e trasuda energia. È reduce dalla première trionfale del suo film, è carico come una molla, parla in modo rapido e concitato, gira compulsivo intorno al tavolo e Marcell Rév lo segue in un lungo piano sequenza, mentre lei rimane immobile e lo ascolta in silenzio.

Lui non tollera di essere considerato dalla critica il nuovo Spike Lee, o il nuovo Barry Jenkins, o il nuovo John Singleton. Non tollera che la sua identità etnica venga usata per giudicare i suoi film. Nessuno – dice – si sarebbe sognato di giudicare un film di William Wyler a partire dal fatto che era bianco e ebreo.

“Non tutto quello che faccio è perché sono nero!”, esclama. Più avanti citerà anche Gillo Pontecorvo per ricordare che nessuno si è mai chiesto perché mai un ricco ebreo italiano abbia deciso di girare un film così vicino ai guerriglieri musulmani come La battaglia di AlgeriL’identità sessuale, di genere o di etnia di un regista devono essere considerate nella valutazione dei suoi film? Lui sostiene con rabbia di no. Lei lo ascolta in silenzio. Marcell Rév le regala alcune immagini di scultorea bellezza.

La illumina da rendere ancora più plastico il suo volto e il suo corpo. È distaccata, forse anche irritata. E a un certo punto svela perché: alla première lui ha ringraziato tutti tranne lei. Si è dimenticato di lei. “Tu credi che il film sarebbe stato altrettanto eccellente se non fossimo insieme?”, gli dice con tono da rimprovero. Il conflitto esplode, e diventa subito visivo: il bianco e nero brucia, genera ombre e luci, formalizza i contrasti. Chiusi in casa, in una sorta di Carnage a due, Malcolm e Marie fanno una verifica abrasiva del loro amore.

Si respira un’aria che oscilla fra Bergman, Cassavetes e Baumbach (Marriage Story). Tutto in una notte. Tutto nella villa. Nelle poche sequenze in cui escono in giardino, vediamo in controluce un bosco dagli alberi contorti che sembra uscito da un fantasy gotico. Lei: “E’ inconcepibile per te che ci sia qualcun altro su questo pianeta più interessante di te…”. Ferito nel suo narcisismo, lui rantola, si difende e contrattacca. Poi la parola passa a lei. Se nel primo atto era lui a monologare, ora – simmetricamente – il monologo spetta a Marie. Lei lo accusa di aver vampirizzato la sua vita. Di essersi ispirato a lei, alla sua storia, alla sua tossicodipendenza, per creare il personaggio della protagonista del film. E tutto questo senza neppure un grazie.

La macchina da presa le sta addosso, la inquadra dai punti di vista più sorprendenti, la svela nella profondità delle sue emozioni. “Ti amavo senza condizioni perché davo valore al mistero, all’ignoto. È ciò che sostiene la tensione di un rapporto. È il fattore chissà”, dice Marie con una voce piana, appena venata di rimpianto. E il rapporto si scortica, resta nudo e duole.

Al contempo radiografia di un amore e esercizio metacritico sui destini del cinema (“l’arte più schifosamente dominante e capitalista del pianeta Terra”) nel mondo contemporaneo, Malcolm & Marie – girato in piena pandemia, nell’estate 2020, con troupe ridottissima e in pieno accordo con i sindacati – è un rondò notturno in cui i due protagonisti continuamente parlano, urlano, si baciano, litigano, piangono, si riconciliano e litigano di nuovo, cercando un possibile punto di equilibrio fra il narcisismo smisurato di lui e la furia autolesionista di lei.

Sino al finale fatto di specchi e di sax, di silenzi e penombre, di linee verticali che li separano. Ma nell’ultima inquadratura i due escono fuori, e noi li vediamo per l’ultima volta dalla camera da letto, incorniciati dalla vetrata, di spalle, intenti finalmente a guardare altrove, in un epilogo aperto fatto di poetica sospensione e di intensa ambiguità.