Immaginate di fondere il bianco e nero di un film di Dreyer con quello di Eraserhead di David Lynch. Aggiungeteci un gioco di ombre degno del Nosferatu di Murnau, un po’ dell’espressionismo di Fritz Lang e perfino qualcosa del delirante surrealismo del primo Bunuel. Troppo? Per niente. Non è un caso se la fotografia di The Lighthouse (opera seconda di Robert Eggers dopo il folgorante esordio horror di The Witch) ha ottenuto una meritatissima nomination all’Oscar ®: il DoP Jarin Blaschke non solo ha voluto girare tutto il film in pellicola, a 35 mm., ma ha anche adottato un formato 1,19:1 che era quello impiegato ai suoi tempi dal cinema muto.
Fateci caso: l’inquadratura ha forma quadrata, con due bande nere, a destra e a sinistra, che racchiudono l’immagine al centro. È un formato che non si usava più da oltre 80 anni, e perfino un film come The Artists (che pure si rifaceva mimeticamente al cinema muto) non aveva osato adottarlo preferendo un formato 1,33:1, cioè un classico 4:3. E non è tutto: Blaschke ha anche dotato le cineprese di lenti e filtri anni ’30, in modo da dare alle immagini una patina antica e in qualche modo archetipa.
Il risultato è stupefacente e superlativo: nel mettere in scena il delirante precipitare nella follia di due uomini (un vecchio e un giovane) ingaggiati come guardiani di un faro su un isolotto roccioso al largo del New England a fine ‘800, il film orchestra una sinfonia luministica che esplora e sperimenta tutti i colori del nero e ci regala immagini di una bellezza abbagliante. Se nelle scene in esterno giorno domina una luce piatta e monocroma, opaca e lattiginosa, senza ombre, che appiattisce corpi e paesaggi in una sorta di bruma nebbiosa, nelle scene in interno notte Blaschke si scatena e pennella sciabolate di nero sui volti di Willem Dafoe e Robert Pattinson, inghiottendo pelle e peli nel buio, e tracciando tenui fili e squarci di luce che screpolano le tenebre.
Buio. Buio. Buio. Buio negli angusti spazi in cui vivono e urlano e si ubriacano i due guardiani del faro, ma buio anche nelle menti e nei cuori. Buio catramoso sul mare che muggisce là fuori, buio nel cielo senza stelle, buio nei recessi dell’inconscio da cui incessantemente emergono incubi e mostri. La luce è lassù, in cima a un faro più volte ripreso nel suo turgore fallico, ed ha la forma di utero, bozzolo, uovo o ogiva luminescente, cui solo il vecchio ha accesso, mentre al giovane l’accesso al faro è negato.
Qualcuno ha detto che The Lighthouse è un film schiacciato e strozzato dal suo eccesso di ambizione. Sarà. L’ambizione c’è, ed è indiscutibile: i dialoghi, ad esempio, sono modellati riprendendo il lessico e la sintassi che risuonano nei testi di Melville e di Coleridge, di Stevenson e di Lovecraft, senza dimenticare il nume tutelare di Edgar Allan Poe (il cui ultimo racconto incompiuto si intitolava guarda caso The Lighthouse).
I nomi dei due personaggi riprendono quelli di due protagonisti di un caso di cronaca nera avvenuto a fine ‘800 su un isolotto al largo del Galles. I gabbiani voraci e feroci evocano gli Uccelli di Alfred Hitchcock. E tutta la parte onirica – a cominciare dalla scena della masturbazione del personaggio di Pattinson, con in mano l’amuleto a forma di sirenetta che ha trovato nel materasso – è intrisa di quell’orrore marino fatto di sirene, piovre, tentacoli e chele che attraversa tanta mitologia prima ancora che tanta letteratura e tanto cinema gotico e horror.
Rispetto ad altri film recenti che hanno fatto della solitudine del guardiano del faro una condizione esistenziale perfetta per indagare nei recessi dell’umano (si pensi anche solo a La luce sugli oceani, dove il guardiano era Michael Fassbender, o a The Vanishing, dove sull’isola del faro sono in tre, Gerard Butler, Peter Mullan e Connor Swindless), The Lighthouse ha in più la capacità di immergerci in un altrove intriso di risonanze visive, mitologiche e oniriche davvero profonde e stratificate, facendoci toccare con gli occhi alcuni fantasmi ricorrenti della sessualità maschile e regalandoci immagini indimenticabili. Come il primo piano di Willem Dafoe mentre viene sepolto vivo, con le badilate di terra che gli entrano in bocca, negli occhi, tra i peli della barba, fino a ricoprirlo del tutto e farlo scomparire nel nero, in un film che sceglie di nascondere non più solo ciò che sta nel fuoricampo, ma anche ciò che sta nel cuore e nel centro dell’immagine.