Buio – La regia di Emanuela Rossi

ARTICOLO DI Gianni Canova

C’è un dentro e c’è un fuori.

Dentro c’è un padre, ci sono tre figlie e c’è il fantasma di una madre scomparsa non si sa come.

Dentro c’è il buio.

Fuori c’è un sole malato e l’apocalisse imminente.

Non lo si vede, il fuori, per tutta la prima parte del film.

È il padre che lo racconta alle figlie.

Ed è un racconto terribile, con donne senza mani e senza occhi, e il pericolo ovunque.

Come in The Village di M. Night Shyamalan,

anche in Buio la narrazione del padre vuol proteggere le figlie dal Male

che si annida al di là dello spazio protetto in cui vivono.

Le tre ragazzine dai nomi allusivi (Stella, Luce e Aria)

vivono nello spazio/tana che il padre ha isolato dal mondo:

indossano lunghe camicie da notte biancastre,

fanno fitness con vecchi videotape e ascoltano la musica che il padre sceglie per loro.

Lui, il padre, esce ogni giorno indossando una maschera antigas

e riappare la sera fra i teli di cellophane che isolano l’ingresso dal resto della casa

portando il cibo che è riuscito a procurarsi là fuori,

a volte – dice – anche arrivando a uccidere pur di non tornare a mani vuote.

Ma il fuori è negato allo sguardo, al nostro come a quello delle ragazze.

Dobbiamo credere al padre, alla sua narrazione.

Anche se qualcosa non torna. Anche se dentro lo spazio protetto della casa

a volte appaiono immagini-shock (come la parete della cucina imbrattata di sangue)

che non si sa come leggere né dove collocare:

ricordi? allucinazioni? premonizioni? rimozioni?

La recitazione di Valerio Binasco imprime alla figura del padre

un’ambiguità di fondo che incrina la fede.

Quando ad esempio legge i versetti dell’Apocalisse,

o quando invita la figlia a ballare con lui

sulle note di Reality, da Il tempo delle mele,

qualcosa lo fa sembrare più un lupo che un padre.

Ma non si può dire altro, per non guastare a chi legge

il piacere di scoprire a poco a poco dove ci vuol condurre

il suggestivo e promettente esordio alla regia di Emanuela Rossi.

Lei dice di essersi ispirata a Yorgos Lanthimos, e si sente.

Ma c’è anche la lezione evidente del già citato Shyamalan.

E c’è una sapienza narrativa e figurativa che usa i canoni del genere,

in bilico fra horror e thriller, per mettere a fuoco una riflessione non banale e non riconciliata

sulla famiglia, sulla paternità, sul trauma del diventare grandi.

Nei panni della figlia più grande, Denise Tantucci (viene dalla fiction,

sarà nel nuovo film di Nanni Moretti Tre piani) presta i suoi occhi grigi

e il suo sguardo penetrante alla messa a fuoco di una ragazzina

al contempo ribelle e impaurita, fragile e determinata.

E il modo con cui scopre, perlustra ed esplora il fuori

lascia davvero senza respiro.

Sospeso com’è fra buio e luce, fra spazi aperti e spazi chiusi,

fra le stelle e il sangue, l’esordio di Emanuela Rossi conferma,

dopo The Nest-Il nido di Roberto De Feo e Il signor Diavolo di Pupi Avati,

il ritrovato vigore dell’horror italiano,

e la sua capacità di intraprendere con coraggio strade nuove.

Attenzione ai titoli di coda: quello che si vede potrebbe indurre

a un ulteriore, repentino e inatteso rovesciamento di prospettiva.