Prima ancora che un regista, Steve McQueen è un artista.
Ha studiato arte e design, ha fatto il fotografo e lo scultore, ha esposto le sue opere al London Institute of Contemporary Arts e alla 52esima Biennale di Arti visive di Venezia.
Non bisogna mai dimenticare questa matrice, quando si guarda un suo film: perché anche se affronta temi socialmente e politicamente rilevanti (come la questione nord-irlandese in Hunger o la segregazione razziale in 12 anni schiavo) la cosa che più colpisce nei suoi lavori è sempre la cura dell’immagine e la dimensione specificamente visuale.
Prendete questo Widows-Eredità criminale: presentato e acclamato dai più come un riuscito esempio di heist movie contemporaneo declinato al femminile, un po’ sul modello di Ocean’s 8, in realtà vedendo il film ciò che avvince e convince non è tanto il racconto del colpo grosso tentato da alcune donne rimaste vedove dopo che i loro compagni sono morti durante una rapina finita male, bensì la cura particolare delle immagini, la distribuzione delle luci e delle ombre, la tavolozza cromatica utilizzata e più in generale l’atmosfera visiva che McQueen riesce a creare.
Ci sono sequenze – quasi tutte quelle ambientate in locali pubblici – che sembrano tableaux vivants di certi quadri di Edward Hopper. E ci sono immagini in cui la costruzione del visibile è così raffinata – nel gioco di riflessi e di specchi, di luci, di vetri, di lampade e di volti – da far quasi dimenticare l’incalzante sviluppo della storia.
A Steve McQueen basta un dettaglio sull’occhio umido di Viola Davis, o sulle dita che sfiorano i petali di un crisantemo bianco, per generare senso ed emozione. Certo: la storia, derivata da una serie televisiva britannica degli anni Ottanta scritta da Lynda la Plante, sulla carta ha tutto ciò che serve per essere avvincente: c’è un mix di azione e di ritorsione, ci sono i doppi giochi, c’è il bisogno di vendetta. E c’è pure una non trascurabile componente politica. Ma è solo lo “stile” McQueen che rende il tutto particolare.
Prendete anche solo l’incipit. Il film inizia con una plongé su Viola Davis e Liam Neeson sdraiati a letto, sul fianco, inquadrati mentre si baciano appassionatamente. Stacco. Lui è fuori, su un furgone, inseguito dalla polizia che spara. Di qua la camera da letto, bianca, luminosa, accogliente, di là la strada, buia, notturna, pericolosa. McQueen i suoi personaggi li presenta così. Poche pennellate in interni domestici, uomini a casa con le loro donne, e poi – in montaggio alternato – fuori, per strada, nell’eterna e sanguinosa lotta per la vita.
L’amore e la guerra. Come dice il vecchio politico interpretato da Robert Duvall: “L’unica cosa che conta è sopravvivere. Come nell’ultima battaglia di Custer: o uccidi o vieni ucciso”. L’abilità di McQueen sta nella naturalezza con cui riesce a far entrare in questa “visione” anche le sue vedove (un’afroamericana, una sudamericana, un’est-europea) che abbandonano l’alcova e scelgono a loro volta la strada. Per vendetta. O per sopravvivere.
Guardate con che misura McQueen costruisce l’equilibrio fra i pieni e i vuoti, i chiari e gli scuri, le luci e le zone d’ombra. Con che eleganza risolve anche le situazioni più cruente. La forza del suo cinema sta qui. Non nel rapporto con i generi (che non gli riesce benissimo, forse per mancanza assoluta di quel candore un po’ istintivo che il genere richiede), né nella costruzione drammatica (che a volte – diciamolo – langue un po’, soprattutto nella prima parte). Nell’edificazione e nella manutenzione dell’immagine, invece, Steve McQueen è impagabile. E riesce a conferire alla sua Chicago i toni e i colori da noir degni della lezione di Collateral di Michael Mann.