Un merito indiscusso ce l’ha, Un paese quasi perfetto di Massimo Gaudioso:
quello di aver ridato al cappello un ruolo da protagonista
nella costruzione dell’identità dei personaggi del film.
Fino a qualche decennio fa era quasi impensabile per un costumista
pensare a un personaggio senza cappello:
da Pinocchio a Charlot fino a Indiana Jones,
il copricapo era parte costitutiva e insostituibile
nella definizione della personalità non solo dei protagonisti
ma anche dei comprimari di qualsiasi storia.
Poi, negli ultimi vent’anni, il cappello sembrava di fatto scomparso.
Dalle strade delle nostre città come dagli schermi dei cinema.
Nel film che segna l’esordio alla regia di Massimo Gaudioso,
già sceneggiatore di quasi tutti i film di Matteo Garrone (da Gomorra a Il racconto dei racconti)
il cappello torna invece a essere determinante.
Merito delle costumiste Ornella e Marina Campanale,
che fin dall’inizio, quando il personaggio di Domenico Buonocore (Silvio Orlando)
rievoca con nostalgia il passato minerario della cittadina lucana di Pietramezzana,
connotano da subito tutti i personaggi ritraendoli in una vecchia foto
con il classico caschetto giallo da minatori.
Lo stesso Domenico – perfetta incarnazione del genius loci –
indossa fin dall’inizio un berretto blu con visiera che connota
in modo inconfondibile la sua identità di cassintegrato
che vive alla giornata in una sorta di pittoresca ghost town del profondo Sud.
Nella scena in cui Domenico invita i suoi concittadini a mobilitarsi
per far tornare in paese una fabbrica che porti benessere e lavoro,
quasi tutti gli abitanti indossano un copricapo.
Coppole, berrette e cappelli di diversa foggia e colore:
dimmi cos’hai in testa e ti dirò chi sei.
La ragazza più carina del villaggio, interpretata da Miriam Leone,
ha in testa una berretta di lana quando incontra per la prima volta
il chirurgo estetico (Fabio Volo) arrivato dal Nord.
Costui invece a Pietramezzana è quasi un alieno
e infatti è a capo scoperto, il cappello non ce l’ha.
Fino a quando non inizia ad affezionarsi a quella strana comunità:
allora, quando va a pesca con Domenico sul lago artificiale,
indossa un berretto dello stesso colore di quello del suo nuovo amico,
mentre quando guarda la partita di cricket in Tv al bar del paese
ha in testa un vezzoso cappellino con visiera.
La condivisione del copricapo è ovviamente sintomo
di una condivisione progressivamente sempre più profonda.
Quando arriva in elicottero il direttore di banca che deve decidere
se concedere o no il finanziamento di cui i paesani hanno bisogno,
ha in testa una sorta di elegante Borsalino, ma lo deve tener calcato con la mano
per evitare che voli via per l’effetto delle pale dell’elicottero.
Lo dimenticherà al bar, il suo cappello, e proprio questa dimenticanza
sarà il pretesto che gli farà scoprire l’inganno che gli abitanti stanno tramando ai suoi danni.
Potenza del cappello. Disegna ruoli e riti sociali,
stabilisce gerarchie, segnala affinità, produce svolte narrative, nasconde e svela.
Alla fine, quando tutto sembra perduto, e per gli abitanti sembra profilarsi
un futuro drammatico e senza prospettive,
nessuno indossa più il cappello, come se quell’assenza fosse il segno più evidente
di una deprivazione di identità.
Ma il film di Gaudioso si chiude con un colpo d’ali finale:
gli abitanti trovano in loco le risorse per ripartire. Si reinventano un futuro,
E questo futuro trova la sua espressione simbolica nel berretto rosso
che la moglie calca sul capo di Domenico,
quasi a sancire solennemente il suo nuovo ruolo.
E’ questo il gesto che chiude il film: come per ribadire
che è il cappello il vero protagonista (o quasi) della storia cui abbiamo assistito.